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Serie di articoli News

STORIE DI CALCE#33
DA FIRENZE, IL RACCONTO
DI OTTAVIANO CARUSO

Con Storie di Calce raccontiamo le esperienze di clienti, appassionati e di tutti coloro che lavorano con la calce. Spunti, aneddoti e, perché no, qualche esempio delle realizzazioni che si possono fare con i nostri materiali.

In questo appuntamento della rubrica, abbiamo intervistato Ottaviano Caruso, restauratore formatore presso la Scuola di Alta Formazione dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze. A seguito della sua tesi si è specializzato in fotografia e diagnostica per immagini. All’attività professionale si affiancano l’attività di docenza presso vari enti, tra cui l’Accademia di Belle Arti di Brera, la ricerca e divulgazione a carattere scientifico e artistico. Abbiamo approfondito con lui la tecnica dell’affresco e la relazione con la calce.

Cogliamo l’occasione  per ringraziarlo per aver condiviso con noi la sua esperienza e le sue riflessioni.

Buona lettura!

Ci racconti il suo percorso professionale

Come prima cosa mi piacerebbe sottolineare che tutto quello che faccio e che sono oggi è frutto del mio percorso di formazione. Mi è sempre piaciuto disegnare e ho sempre avuto propensione per tutto ciò che fosse legato alla pratica e, contemporaneamente, allo sviscerare la teoria e/o filosofia nascosta dietro a un’azione, per quanto questa sia meccanica nella sua essenza. Compresa la mia passione per le arti, ho frequentato il liceo artistico, nonostante i miei professori delle medie, nella fase di orientamento agli studi successivi, avessero indicato il Liceo Classico o lo Scientifico per le mie buone attitudini allo studio: l’artistico era considerato una «scuola di serie B» ma la mia grande fortuna è stata quella di avere una madre illuminata che ha assecondato i miei desideri. Ho avuto degli insegnanti straordinari, tra i quali voglio ricordare un grandissimo storico dell’arte venuto a mancare da pochissimo, Giovanni Mendola.

La mia insegnante di pittura, la professoressa Antonia Trapani, sosteneva che non fossi molto creativo e, data la mia grande passione per la tecnica e la pittura rinascimentale (quasi a livelli ossessivi, lo ammetto: ogni estate dovevo recarmi a Firenze a studiare dal vivo la grande pittura del Rinascimento) mi consigliò di studiare restauro. I testi che mi aprirono a questo mondo furono La Teoria del Restauro di Cesare Brandi e i libri sulle tecniche artistiche di Corrado Maltese, ma la vera svolta avvenne quando lessi sulla rivista Bell’Italia dedicata a Firenze un articolo sull’Opificio delle Pietre Dure e sulla Scuola di Alta Formazione: da quel momento sviluppai una nuova ossessione, quella di riuscire a entrare nella prestigiosa scuola del Ministero dei Beni Culturali.

Finito il liceo provai il mio primo concorso presso l’OPD che si concluse presto col secondo test attitudinale e dopo una brevissima parentesi all’Accademia di Firenze, ebbi una crisi profonda, come ogni ragazzo che perde i suoi punti di riferimento, e decisi di tornare in Sicilia per frequentare l’Accademia Abadir di San Martino delle Scale: un’esperienza straordinaria che mi ha dato modo di addentrarmi nella disciplina del restauro e di aprire la mente sotto tutti i punti di vista. Vorrei ricordare che gli anni Novanta a Palermo furono floridi dal punto di vista culturale: molto probabilmente questo è dovuto a causa delle stragi di mafia che furono talmente clamorose e terrifiche che per un periodo la città dilaniata da quei fatti visse una vita apparentemente normale. Io vivevo in Via d’Amelio e tutte quelle storie hanno lasciato, inevitabilmente, un segno indelebile. L’ultimo esame dell’Accademia fu di fotografia e ancora oggi interpreto questo come uno di quegli episodi legati a strane coincidenze: mai avrei detto che la fotografia sarebbe diventata una parte integrante della mia vita.

Finita l’Accademia, dopo cinque tentativi in diversi anni, riuscii a essere ammesso all’Opificio delle Pietre Dure dove mi sono specializzato nel restauro di pitture murali e stucchi. La formazione all’Opificio è stato un vero e proprio godimento, in quanto è stata la rivelazione che la strada fosse quella giusta e mi ha dato la possibilità di avere esperienze umane e professionali strepitose. I quattro anni si sono conclusi con una tesi che è sembrata disegnata su di me dal titolo Caratterizzazione dei materiali pittorici nelle pitture murali mediante tecniche fotografiche. Creazione di modelli di riferimento e proposta di un protocollo di indagine. Punto di partenza di questo lavoro fu l’importantissima ricerca condotta da Leonetto Tintori, il primo a creare una sorta di banca dati per la tecnica della pittura murale. All’indomani della tesi ho avuto la fortuna di collaborare professionalmente con l’OPD al cantiere di restauro delle fasce laterali della Cappella Maggiore di Santa Croce in Firenze e proprio in quell’occasione ho iniziato a fare i primi servizi professionali di indagini diagnostiche fotografiche.

Un’esperienza che oggi posso dire si rivelò cruciale fu l’assistenza alle due equipe di Haltadefinizione e Profilocolore s.r.l. per l’acquisizione ad alta definizione e multispettrale di una zona campione delle pitture murali della Cappella Peruzzi in Santa Croce: da quel momento si creò un rapporto di collaborazione umana e professionale con Marcello Melis di Profilocolore s.r.l che ha messo a punto un sistema aperto di rilevazione multispettrale all’avanguardia. Da lì la vita mi ha portato a professionalizzarmi verso la diagnostica anche se, per come vedo io le cose, resta sempre parte della stessa dimensione: il mio lavoro si svolge tra la documentazione fotografica e diagnostica, l’insegnamento sia di queste discipline che delle tecniche pittoriche, la ricerca e divulgazione, accompagnate da attività che, anche se viste da fuori sembrano svaghi, per me, sono totalmente integrate nel processo di ricerca tecnica e creativa, ossia la ricerca dei materiali, la passione per la cucina e per la danza.

La calce e l’affresco: approfondiamo questa relazione

Farò un’affermazione che va contro il nostro interesse: affresco e calce non sono sinonimi. L’affresco è la tecnica madre della più generica pittura murale e, partendo proprio dalla ricerca di Leonetto Tintori, potremmo affermare che non necessariamente tutto ciò che è ad affresco richiede l’utilizzo della calce. Senza dubbio la calce è la protagonista della pittura ad affresco, poiché senza non è possibile ottenere la reazione chimica della carbonatazione, ma, come insegna il Dott. Rattazzi (socio fondatore di Banca della Calce, che, prima di conoscere personalmente, era quello del libro Conosci il Grassello di Calce) la calce è un mondo molto vasto e anche in affresco si può usare in varie forme, con varie modalità e non necessariamente da sola.

Oggi molti decoratori e muratori esagerano perché nel 99% dei casi si servono di un aiutino, ossia di sostanze della modernità che non sono altro che le evoluzioni aberrate di un materiale storico dalle proprietà eccezionali quando unito alla calce, cioè il latte! Chi è realmente pratico di questa tecnica sa che l’uso di additivi organici in realtà non è necessario; se proprio dobbiamo usarne uno, consiglierei il latte, spesso citato anche nei trattati antichi. A tal proposito Leonetto Tintori parla di tempera ausiliaria e cioè dell’utilizzo di legante organico ad affresco.

Da qui la mia provocazione che affresco e calce non siano necessariamente sinonimi: la calce è il materiale di base dell’affresco, ma non è obbligatorio usarla per l’esecuzione e in miscela con gli altri pigmenti, che possono essere applicati con bianchi differenti. Andiamo così a sfatare anche quel falso mito generato dalla letteratura vasariana, ma non solo, che vede il buon fresco come l’assoluto protagonista della pittura murale: è stato dimostrato, in varie modalità, che la presenza di leganti organici fosse abbastanza normale nell’esecuzione degli affreschi e, a tal proposito, ricordo l’importantissimo progetto di ricerca internazionale Organic Materials in Wall Painting. Concludo dunque che il rapporto tra affresco e calce è assai stretto, ma senza dubbio non esclusivo.

Calce e restauro: perché scegliere materiali naturali per i lavori di restauro e conservazione

Ultimamente mi piace ragionare su un parallelo: l’evoluzione della tecnologia e la produzione di materiali, che potremmo considerare quasi essenziali per l’attività delle società moderne, hanno avuto degli sviluppi che, a mio avviso, sono in relazione tra di loro. In particolare mi vorrei concentrare su la calce, la farina e il caffè. La produzione di questi materiali si è sviluppata quasi in modo parallelo: inizialmente si usavano calci e grassello naturali, farine non raffinate e integrali, caffè coltivato naturalmente. Nell’era della industrializzazione e produzione di massa si sono diffuse le calci idrate/idrauliche e il cemento Portland; le farine raffinate e, per il caffè, le robuste possibilmente iper tostate. Oggigiorno stiamo ritornando alle origini, spesso mascherate da innovazioni: riscopriamo vecchie fornaci per produrre la calce in modo tradizionale, priva di additivi e a lunga idratazione; utilizziamo sempre più farine di semi integrali e grani di qualità, beviamo caffè più delicati come le arabiche in miscela e monorigine di diverse qualità.

Questo ritorno al passato si è verificato perché, di fatto, la produzione tradizionale dà prodotti qualitativamente migliori: le farine e i caffè sono meno dannosi per la salute e più buoni come sapore, la calce è un materiale dalle caratteristiche generali migliori di qualsiasi altro legante inorganico utilizzabile in edilizia e per fini decorativi. Perciò la risposta alla domanda è semplice: la qualità ripaga sempre, anche se nell’immediato sembra il contrario. Lungi dall’avanzare teorie illusorie su elisir di lunga vita, come pare siano gli ultimi trend del mondo web instillati da personaggi più o meno discutibili che vogliono illudere che il passare del tempo non esista, va constatato che materiali di qualità hanno una migliore resa nella durata nel tempo e anche nella bellezza della materia. Usando un paradosso: nonostante la sua inorganicità e quindi assenza di vita, la calce è un materiale «vivo» e con i suoi continui cicli di carbonatazione e ricarbonatazione è in attività per anni, se non per secoli. Attiva, dunque mutevole, come tutte le cose intelligenti: ecco, forse potremmo affermare che la calce è un materiale intelligente…in tutti i suoi aspetti!

Il Bianco San Giovanni: ci racconta la storia del bianco che nasce dalla calce?

La storia del Bianco San Giovanni è tanto lunga quanto poco conosciuta. Questa definizione è di Cennino Cennini, tra le fonti antiche l’unico che lo chiama in questo modo. Sul motivo per il quale lo chiamasse così ho sviluppato la mia teoria: essendo San Giovanni il patrono di Firenze, perché non dedicare a lui il nome del bianco più performante dell’affresco?

Il Bianco San Giovanni nasce fondamentalmente per una questione pratica: i pittori avevano bisogno di un pigmento performante per facilità di stesura, potere coprente, resistenza, stabilità e compatibilità con gli altri materiali; in poche parole, facile da utilizzare. Prima della produzione dei pigmenti nuovi a base di Titanio, Zinco e Bario, i pittori avevano a disposizione calce, polvere di marmo, gesso e biacca: quest’ultima, applicata ad affresco e senza alcun legante ausiliario, si altera; il gesso è evidentemente troppo solubile e poco coprente. Rimanevano dunque calce e polvere di marmo o carbonati di calcio in varie forme (principalmente ossa di animali e gusci d’uovo).

Chi usa la calce come materia colorante sa bene che, a causa della sua natura di dispersione, è un materiale fantastico, ma molto difficile da gestire quando usata da sola e più che mai ad affresco. I motivi sono presto detti: il suo vero effetto si vede da asciutta, è estremamente complesso ottenere linee sottili e la sua causticità può bruciare alcune tonalità, cioè schiarirle eccessivamente. Seguendo il procedimento descritto da Cennini si potevano migliorare le caratteristiche di un prodotto già di per sè fantastico e ottenere: una materia colorante da un discreto potere legante, maggiormente coprente e il cui effetto finale è già quasi raggiungibile da fresco, oltre alla possibilità di avere una maggiore concentrazione di materiale colorante a parità di acqua, di eseguire linee più sottili e definite e un minor rischio di alterazione dei toni mescolando il composto con altri pigmenti.

Il bianco di cui parla Cennino è una miscela di idrossido di calcio e carbonato di calcio: il bianco San Giovanni ha dunque i vantaggi sia della calce che di un pigmento.

Da tempo rifletto su una sfida che vorrei lanciare a diagnosti e scienziati: trovare un modo per capire se, in una pittura antica, il bianco presente è un Bianco San Giovanni di partenza (intendendo come descritto da Cennino Cennini) oppure una calce che, nel tempo, si è trasformata in carbonato di calcio, o una miscela di base di calce e carbonato di calcio nelle varie forme esistenti.

A fronte di queste ricerche e riflessioni con la Banca della Calce vorremmo lavorare a un prodotto inedito: un Bianco San Giovanni Sincero, prodotto secondo la ricetta originaria, e alla formulazione di un Bianco San Giovanni Artificiale, cioè una miscela di grassello di calce stagionato 48 mesi con aggiunta di polvere di marmo micronizzato per i veri cultori della materia.

Ha qualche aneddoto da raccontarci?

Più che aneddoto, posso raccontare un’esperienza che dire unica è poco, avvenuta in occasione della realizzazione di una replica di un affresco distrutto. Il soggetto è all’interno della Citè Universitè di Parigi nel Salone di rappresentanza del padiglione degli Stati Uniti: un ciclo di affreschi a opera di Robert La Montagne Saint-Hubert, pittore dei primi anni del Novecento, dedicato alle tappe fondamentali della Storia di Francia. Per il  lavoro fu chiamato uno dei maggiori esperti di affresco in Italia (onestamente mi sentirei di dire nel mondo): il mio maestro Fabrizio Bandini che mi chiese di assisterlo.

Quell’affresco è stato realizzato su una superficie dalla texture particolare: è una superficie ruvida, ottenuta molto probabilmente usando un aggregato assai grosso e senza frattazzare la malta fresca, come si faceva nel sei-settecento e com ancora oggi fanno i muratori. Probabilmente la calce impiegata è idraulica, prodotto di cui i francesi sono ancora oggi tra i maggiori e migliori produttori. Dopo un primo sopralluogo, avevamo fatto le nostre prove con il nostro bellissimo grassello stagionato 48 mesi, con le sabbie – addirittura setacciate – e con un curva granulometrica stabilita da noi: il risultato era ottimo. Presi gli accordi opportuni e ordinato tutti i materiali arriviamo entusiasti a Parigi, dove troviamo una sorpresina: le materie prime che ci erano state procurate erano sabbia gialla, confezionata in sacchi umidi, umidi, umidi, e calce idraulica! A questo punto mi sento di dare un consiglio: se vi dovesse capitare di ordinare calce in altri paesi specificate bene che tipo volete!

Ma non finisce qui: i muratori locali avrebbero dovuto preparare il muro, attività che secondo noi significava fare un minimo di arriccio, per loro invece consisteva nello stonacare tutto e applicare quella che, in gergo, si chiama boiacca, cioè uno straterello di malta assai liquida giusto per pareggiare le imperfezioni grossolane del muro.  Avendo 11 giorni di tempo complessivi non potevamo permetterci di fare una gettata di arriccio unica e così trovammo una soluzione che per me fu rivelatrice: applicavamo due strati, uno di arriccio e l’altro di intonachino, fresco su fresco: in questo modo si poteva seguitare a dipingere per oltre due giorni!

L’utilizzo di quei materiali e quell’impedimento apparente si sono però trasformati in una risorsa: oggi non escludo che il buon risultato sia stato raggiunto proprio in virtù dell’uso di quei materiali.

Giusto per colorare il racconto, aggiungo anche che dovevamo asciugare tutta quella quantità di sabbia, altrimenti sarebbe stato impossibile setacciarla e ottenere una curva granulometrica precisa per avere una texture quanto più vicina all’originale. Dopo aver disposto tutta la sabbia ad asciugare per terra, dedicai una giornata intera a cercare un negozio di setacci in tutta Parigi, finché non trovai una splendida bottega in centro che vendeva solo quelli! Comprati i setacci e tornato alla Citè ho lavorato chili e chili di sabbia con movimenti rotatori che creano un mulinello splendido a guardarlo; ricordo ancora il viso delle persone che, da fuori, mi guardavano incuriosite e affascinate.

Per chi volesse approfondire, qui e qui è possibile vedere due video che documentano il lavoro.

È stata un’esperienza straordinaria che, oltretutto, mi ha insegnato, con la pratica, che per fare un affresco reale bisogna essere ben organizzati e avere una capacità progettuale ed esecutiva precisa in ogni fase. Ho capito il motivo per cui esistesse tutta la gerarchia dal Capo magister fino al garzone e che ogni figura è fondamentale per lo svolgimento del lavoro: un muratore che intonaca alle 4-5  del mattino, così che per le 8 il muro sia pronto per essere dipinto; un garzone che metta a posto e tenga continuamente organizzato il cantiere, perché la sporcizia e il disordine sono continui; un aiuto esperto che si occupa di miscelare i colori, reggere i cartoni, assistere la figura del Maestro che deve occuparsi soltanto di porre il pennello sul muro.

Un’altra esperienza straordinaria riguarda due cicli di pitture realizzate con la tecnica della pittura romana imperiale in Inghilterra. Non posso raccontare molto perché il lavoro è in itinere, ma posso dire che senza l’esperienza maturata nel tempo e senza le mie ossessioni – tra cui quella per gli intonaci lisci – non avrei potuto gestire molte cose pratiche e dare indicazioni su molte applicazioni.

Vorrei dunque chiudere questa stimolante intervista con due citazioni: la prima di uno degli artisti che, pur non essendo un maestro assoluto dell’affresco, ha condizionato fortemente la mia esistenza: «…che la sapienza è figliola dell’esperienza» (Leonardo da Vinci), la seconda proviene dal Teatro Massimo di Palermo, la mia città natale: «L’Arte rinnova i popoli e ne rivela la vita, vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l’avvenire.» È un’idea che condivido.

TESTI PER L’APPROFONDIMENTO CONSIGLIATI DA OTTAVIANO

  • Botticelli Guido, Metodologia di restauro delle pitture murali, Firenze, Centro Di della Edifir, 1992.
  • Cennini Cennino, Il libro dell’arte, Vicenza, Neri Pozza Editore, 1995.
  • Maltese Corrado, Le tecniche artistiche, Ideazione e coordinamento di Corrado Maltese, Mursia
  • Mora Paolo e Laura, Philippot Paul, La conservazione delle pitture murali, Bologna, Editrice Compositori, 2001.
  • Rosa Leone Augusto, La tecnica della pittura dai tempi preistorici ad oggi, Milano, Società editrice libraria, 1937.
  • Renzoni Maria , Il bianco di calce: da Cennino Cennini a Ulisse Forni in Kermes, n.44, 2008, p.47-53.
  • Zanardi Bruno, Arcangeli L., Appolonia Lorenzo, Della natura del bianco sangiovanni. Un pigmento e lettura delle fonti in Ricerche di Storia dell’arte, n.24, 1984, p.62-74.
  • Cobau Costanza Andreina, La pittura a calce: osservazioni in Scienza e Beni culturali, L’intonaco: storia, cultura e tecnologia, Atti del Convegno di studi di Bressanone, Padova, 1985, p.123-131.
  • Denninger Edgar, What is Bianco di San Giovanni of Cennino Cennini, in Studies and Conservation, n.19, 1974, p.185-187.

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