Callout piè di pagina: contenuto
Serie di articoli News

STORIE DI CALCE#33
DA VENEZIA, IL RACCONTO
DEL PROF. ARCH. CESARE FEIFFER

Con Storie di Calce raccontiamo le esperienze di clienti, appassionati e di tutti coloro che lavorano con la calce. Spunti, aneddoti e, perché no, qualche esempio delle realizzazioni che si possono fare con i nostri materiali.

In questo appuntamento della rubrica, abbiamo intervistato il Prof. Arch. Cesare Feiffer con il quale abbiamo parlato di restauro, calce e formazione nel mondo dell’architettura. L’arch. Feiffer è direttore di recuperoeconservazione_magazine dal 1999 e docente presso la Facoltà di Architettura all’Università degli Studi di Roma Tre dove insegna Restauro Architettonico. Ha all’attivo centinaia di cantieri di restauro e unisce all’attività professionale quella di studio e di ricerca. Ha partecipato a centinaia di convegni e pubblicato saggi, articoli e testi di approfondimento sui temi del restauro e della progettazione sul costruito.

Cogliamo l’occasione  per ringraziarlo per aver condiviso con noi la sua esperienza e le sue riflessioni.

Buona lettura!

Ci parli dell’amore/odio degli architetti per la calce 

Non credo sia un problema di sentimento, piuttosto di ignoranza. La mia attività di docente mi ha fatto constatare negli anni che, chi intraprende gli studi di architettura, approfondisce la storia delle forme dell’architettura, dell’aspetto formale ed estetico, ma raramente ha modo di apprendere concretamente come gli edifici, soprattutto quelli storici, siano costruiti e rifiniti superficialmente.

Chiedo spesso ai miei studenti di descrivere intonaci, murature, volte, solai, ma non ne sono quasi mai capaci. Da un lato, non hanno gli occhi addestrati, dall’altro manca quell’elemento importantissimo che è la curiosità di sapere com’è fatto quel muro, quell’intonaco e quello stucco. Se sei curioso ti chiedi, guardi con occhio indagatore, osservi il muratore che lavora cercando di rubargli movimenti, colpi di mano; ti chiedi come sono tessuti i muri, li tocchi, li accarezzi e capisci molte cose che il solo sguardo non può spiegare.

La storia delle tecniche architettoniche è una grande lacuna nel percorso formativo non solo degli architetti, ma anche degli ingegneri, soprattutto in un paese come l’Italia, dove gli edifici storici sono la maggior parte del costruito esistente. Tali mancanze hanno pesanti conseguenze nel progetto e nel cantiere di restauro, così i materiali pre-industriali, invece di essere conservati, vengono sostituiti. Mi riferisco non solo alla calce, ma anche alle pietre, ai cotti, ai pavimenti, alle finiture e intonachini. In genere c’è poco interesse nel preparare gli allievi architetti a riconoscere le strutture, i materiali e le lavorazioni della tradizione costruttiva.

La calce in edilizia storica: perché è fondamentale per chi opera nel settore del restauro conoscere questo materiale che dura da secoli

La calce, come tutti i materiali storici, va conosciuta come base legante per malte, intonaci, pavimentazioni o tinteggiature. È quasi scontato dire che questa conoscenza è fondamentale. Spesso, però, nel progetto di restauro la conoscenza non viene condotta in prima persona dall’architetto, ma viene delegata a professionisti esterni. L’approfondimento storico viene affidato agli archivisti, la diagnostica scientifica alle ditte specializzate, i rilievi a geometri o operatori che elaborano piante, fotopiani ecc. , la statica agli ingegneri specialisti. Così viene meno la possibilità di adattare il progetto a quello che l’architetto restauratore ha in mente, alle sue conoscenze. Anche la conoscenza della calce e dei derivati spesso segue questo processo; di conseguenza, viene a mancare la presa di coscienza di cosa sono i materiali base dell’edilizia, ma ancor di più dei fenomeni di degrado che li colpiscono: di conseguenza il progetto tecnico si distanzia dalla realtà. La conoscenza della calce è fondamentale sia per il suo aspetto estetico e per le meraviglie che ha prodotto, sia perché è un documento di cultura materiale, oggi ritenuto fondamentale dalla cultura del restauro: entrambi questi aspetti sono importantissimi per un progetto di restauro che voglia avere contenuti di qualità.

Di recente RecuperoeConservazione_Magazine ha pubblicato una numero monografico sul restauro degli intonaci antichi; ci racconta qualcosa?

Nello speciale dedicato agli intonaci abbiamo preferito dare spazio a riflessioni ed esperienze diverse legate alle attività di conservazione che sono sempre rare nell’operatività attuale. Nell’editoriale introduttivo ho raccolto parti di articoli e contributi pubblicati negli anni sulla nostra rivista, citando vari autori che approfondiscono il tema: è nata così una sorta di miscellanea che sottolinea l’importanza di un approccio diverso alle superfici dell’architettura storica. Il filo rosso che lega le varie citazioni illustra come le attività conservative degli intonaci, e quindi della calce, siano difficili e percentualmente perdenti, ma ci sono anche esempi di altissima qualità che danno fiducia a chi crede sia giusto avvicinarsi all’edificio storico con un atteggiamento diverso dalla demolizione e sostituzione. Interessante è l’iniziativa in corso tra alcuni studiosi che riflette sull’opportunità di rendere obbligatoria la manutenzione periodica di tetti e facciate, almeno negli edifici pubblici. Una pratica che potrebbe facilitare, e non poco, la conservazione di intonaci ed edifici. Naturalmente anche in questo caso il ruolo della calce è centrale.

In un editoriale pubblicato sulla rivista RecuperoeConservazione_Magazine parlava di una domanda inopportuna…>>

Sì, è un’esperienza che ho fatto in prima persona durante un Master quando, illustrando un’immagine di un intonaco antico parlavo delle modalità di posa, degli strati, del legante e degli aggregati. Ad un certo punto, sentendo che il pubblico mi seguiva poco, ho chiesto se qualcuno sapeva dirmi come veniva prodotta la calce in epoca preindustriale e se c’era differenza tra l’idraulica e l’idrata. Nessuno era in grado di formulare una risposta tecnica e strutturata sui componenti, sul processo produttivo e sulla qualità del prodotto finale. Non chiedevo formule chimiche o approfondimenti scientifici, ma come si fabbricava ieri e oggi il materiale più diffuso nel bacino del Mediterraneo da 10.000 anni. Mi sembrava di essere davanti a liceali che si nascondono sotto i banchi per evitare l’interrogazione.
Purtroppo, si sa che l’avvento del cemento dall’inizio del secolo scorso ha spazzato via tutte le tradizioni artigianali e il rapporto diretto con quei materiali definiti erroneamente poveri che sono l’essenza del costruito storico. Oggi questa cancellazione della memoria costruttiva continua: dopo i rivestimenti a base cementizia si sono enfatizzati i materiali plastici, fino ai demenziali cappotti, che hanno infagottato gli edifici storici in contenitori di plastica.

Queste tecniche, figlie di un mercato che chiede materiali sempre più facili e veloci da applicare, perché la manodopera è drammaticamente scesa di qualità, hanno provocato un buco nel  settore del restauro, dove anche la produzione dei materiali storici è scomparsa, con risultati pessimi sia dal punto di vista tecnico, che culturale che estetico. Per fare un paragone banale ma efficace, è come se si fosse passati dall’indossare abiti in cotone al posto di quelli in nylon: l’effetto sulla pelle, sull’estetica, sulla durata del contenuto è sicuramente diverso. Purtroppo, il pensiero diffuso è che i costi di materiali naturali e storici siano più alti: nessuno però pensa al costo economico e sociale dei materiali moderni, sia in termini di danni provocati alle strutture, sia in termini di smaltimento. I materiali storici sono riciclabili, la plastica no: ci troveremo di fronte a nuovi amianto ed eternit che non sapremo come smaltire.  Da parte mia, continuo a costruire come i Tre Porcellini con calce (anche con paglia), mattoni in laterizio e legno possibilmente non lamellare: materiali che regalano un benessere abitativo imparagonabile rispetto a quelli moderni.

Un aneddoto che vuole raccontarci

Ne ho un paio, entrambi legati alla calce. Tempo fa, in un cantiere mi sono imbattuto in un intonaco particolare, molto spesso. Ho estratto dalla tasca un coltellino che porto sempre con me e ho provato a fare una sorta di stratigrafia: dopo il primo strato di calce, seguito da uno di calce e sabbia, mi sono trovato davanti un materiale luccicante. Tolti gli ultimi residui di scialbo, ho scoperto che si trattava di conchiglie e mi sono iniziato a porre delle domande: erano state messe per dare luminosità? Oppure erano semplicemente contenute nella sabbia usata per realizzare l’intonaco? Ho iniziato a guardare il paesaggio intorno, a chiedermi la distanza dal mare, le fasi costruttive del palazzo e degli edifici vicini, se l’architetto che lo ha progettato avesse mai adottato soluzioni analoghe ecc.

In pratica stavo approfondendo i segni storici degli elementi di cultura materiale relazionandoli, come fanno gli archeologi, sia al contesto di scavo, sia agli strati. L’ingegnere che si trovava con me in cantiere mi osservava incuriosito e si chiedeva come mai stessi fissando intensamente un insignificante intonaco da svariati minuti. Dopo che gli ho spiegato cosa riconoscevo in quel contesto materico, i rapporti che esso aveva con l’arte di costruire preindustriale e altri dati, è rimasto affascinato dai miei interrogativi e per tutta la durata dei lavori è stato uno dei più attenti conservatori di quell’intonaco!

Il secondo aneddoto è legato invece al mondo dell’università. Spesso faccio portare in aula sabbia, calce e tinte per provare ad addestrare gli studenti nella realizzazione di intonaci, a mescolarli e applicarli. In una di queste occasioni, dopo aver miscelato l’intonaco, uno di loro ha esclamato «ma è pesante!». Ho spiegato che sì, è faticosa l’edilizia: i materiali pesano, richiedono forza, c’è un processo lavorativo ampiamente influenzato dalla manualità e che spesso sugli intonaci restano tracce di queste fatiche. Gli intonaci stesi di prima mattina in primavera sono diversi da quelli applicati al pomeriggio d’autunno: le superfici parlano, basta saperle interrogare. Questi materiali sono complessi e variano molto a seconda del lavoro manuale e delle condizioni atmosferiche: è sufficiente sollevare un secchio di malta e portarla al primo piano di un edificio per rendersene conto e non credo che molti architetti l’abbiano fatto. È proprio per questo che sono sempre più convinto che un po’ di pratica edile nelle scuole di architettura non farebbe certo male ai futuri architetti!

ALTRE STORIE DI CALCE

Pulsante torna in alto